[V] Se vi è ricerca positiva, la quale valga a provare che la mente dell’uomo è il prodotto di uno sviluppo, e non un fenomeno nuovo apparso ad un tratto sulla superficie della terra, è quella che ha inspirato l’egregio dott. De Blasio nella compilazione del libro che ho l’onore di presentare agli studiosi. L’antropologo, lo psicologo, il sociologo vi troveranno materia di riflessione, poiché da un argomento che a prima vista sembra di ristretto significato come quello della stregoneria e del malocchio si desumono illazioni importantissime sulla storia dell’anima umana.
[VI] L’evoluzione mentale umana è assai più lenta e stentata di quanto suppongano i filosofi e i moralisti che ancora partono dal preconcetto della fondamentale differenza fra l’animale e l’uomo, e che, per ispiegare il punto cui dopo tanti secoli è arrivata in pochissimi individui eletti la potenza intellettuale della nostra specie, non sanno trovare ipotesi migliore della improvvisa formazione di un’ « anima umana » e della sua immissione in un « corpo animale ». Il preconcetto, che pareva distrutto per sempre dai progressi delle scienze biologiche, antropologiche e psicologiche, ci ritorna in questo momento per opera dei neo-spiritualisti e dei dilettanti dell’evoluzionismo; e ci ritorna rinfrescato dalla corrente mistica che ci aleggia d’attorno.
Sopravvive in mezzo agli splendori della civiltà, in contrasto perenne cogli acquisti meravigliosi del sapere, una folla di credenza [VII] primitive, che l’umanità porta in sé come retaggio di una lontanissima fase di inferiorità mentale, quando di ben poco si era essa allontanata dalle specie affini e si formava il suo massimo dei caratteri distintivi, il linguaggio.
Le paure incoscienti di fronte agli arcani della legge di causalità, che la mente dell’uomo primitivo, del selvaggio e del bambino non sa vedere né nel mondo esterno né in quello dei proprii sogni, appartengono anche alla psicologia animale. È assurdo pretendere che la percezione dell’ignoto cominci nell’uomo: si dovrebbe dire, anzi, che essa finisce in lui, sostituita dalla percezione del vincolo causale fra le sensazioni, e quindi fra le cose. Tutti gli animali mostrano terrore di ciò che non comprendono o di cui loro sfugge la causa; e la sola differenza tra essi e noi è questa, che al distacco fra i fenomeni onde è colpita la nostra mente noi diamo un nome.
Il misticismo e l’occultismo degli animali [VIII] rimangono confinati nella pura sfera percettiva: i nostri si spingono, pur troppo, nella intellettiva, e là assumono la forma e la importanza di attività psichiche enormemente sviluppate e all’apparenza nuove nell’evoluzione mentale.
Ma errava il de Quatrefages quando poneva la religiosità ed il senso morale come proprietà caratteristiche aggiunte alle fisiche, alle vitali ed alle animali per dare origine al suo presunto « regno umano ».
Bisognava, anzi tutto, dare la definizione della religiosità; e a meno di voler correre dietro ai fantastici concetti che di essa si son fatti i mitografi metafisici dello stampo di Max Müller, il quale vi scorge una non si sa bene se facoltà o funzione di « affermare l’Infinito », o anche del genere di Réville, il quale vi trova invece il sentimento del legame con lo « Spirito dominatore », noi non possiamo dirla una forza nuova nel mondo terrestre. Se la definiamo con criterio positivo come il sentimento della nostra dipen- [IX] denza dalle forze che ci circondano, di cui siamo il prodotto o da cui siamo dominati (forze che si sintetizzano in un concetto di unità solo in una fase avanzata di sviluppo mentale), siamo costretti di concedere agli esseri inferiori i germi, e più che i germi di questo sentimento e della conseguente rappresentazione di un rapporto fra l’essere stesso senziente e i fenomeni esterni. Il Van Ende, molti anni or sono, aveva cominciata una lunga dimostrazione delle credenze esistenti nella psiche animale: quella dimostrazione non l’ha finita; però le parti che ne han vista la luce bastano a convincere che la religiosità non è propria esclusivamente della psiche umana, ma approfondì le sue radici in piena animalità.
Le superstizioni non sono la religione, né tutte hanno rapporti con i sentimenti e concetti intorno agli esseri ed alle cose superiori [X] all’uomo. Ma una gran parte degli errori popolari costituisce un elemento primordiale delle diverse religioni; una parte si è in esse così compenetrata, da non potersi intendere certe credenze religiose senza qualche originaria superstizione che ne fu il primo nucleo ed ora la mantiene; altre derivano da ingenue interpretazioni dei dogmi e dei riti;ed altre ancora ci mostrano, per così dire, in evoluzione possibile forme nuove o future di religione, ad esempio lo spiritismo. Sostanzialmente però ogni superstizione è una erronea credenza riguardo alla legge di causalità dei fenomeni naturali, in quanto questi dall’esterno possano agire su di noi o in quanto noi possiamo esercitare su di essi, coi nostri pensieri e con la nostra volontà, un’azione direttiva o preservatrice.
Tutte le superstizioni si dividono, dunque, facilmente in quelle relative al potere delle cose e delle altre persone sul soggetto (potere che è temuto o preveduto, e che si vuole propiziare); ed quelle relative alla reazio- [XI] ne del soggetto medesimo sulle cose e sugli altri.
Il fascino, il malocchio, l’incantesimo, la magia, la fattucchieria, la stregoneria, il vaticinio, la propiziazione, la cartomanzia, e tutte le consimili forme della mantica costituiscono un cumulo enorme di semplici varianti dei due accennati rapporti. Ma di più, esse non danno origine a credenze e a pratiche essenzialmente diverse presso i diversi popoli, attraverso i tempi, nei differenti gradi di civiltà o, meglio, di barbarie e semibarbarie (la vera civiltà è assai lontana e ideale!!).
Una desolante uniformità regna anche in questo campo rozzo e sterposo dell’umano pensiero. Ovunque si porti l’indagine demopsicologia si trovane le medesime illusioni, i medesimi errori logici, le medesime paure irreflesse, le medesime identiche ragionevolezze. Anche oggi l’Australiano, il Boscimano, il Vedda di Ceylan, il Botocudo, l’Akkà del centro dell’Africa, questi residui o, se si vuole, questi rappresentanti dell’uomo prei- [XII] storico, danno la mano nelle loro superstizioni all’abitante di Parigi, di Londra, di Milano, di Nuova York, i quali pur sono o si immaginano di essere i rappresentanti della più avanzata civiltà moderna. Ed attraverso ai tempi il troglodite della Maddalena, il guerriero dei Dolmen, il satrapo di Elaiopoli, il patrizio e il plebeo di Roma, l’Inca del Perù, il cittadino dell’Atene di Pericle, o quello della Firenze dei Medici, fino al gaudente delle grandi moderne metropoli, sedi dei più raffinati sentimenti, si trasmettono la fede nelle medesime manovre e pratiche contro i pericoli che li minacciano dagli arcani dell’invisibile e dell’intangibile.
I Beneventani, che vengono studiati dal De Blasio nel suo volume, hanno fama di essere i più superstiziosi, non che degli Italiani, di tutti gli Europei. Forse ciò è possibile, perché i meridionali posseggono una [XIII] fervida fantasia, hanno in genere scarsa coltura, e conservano molti dei caratteri arcaici fisici e morali della loro razza; ma può anch’essere che le loro superstizioni ci appajano più numerose perché ne è più vivace la manifestazione.
Sostanzialmente il Parigino dei salons e boulevards, che vede dappertutto lo spione prussiano, o che crede nell’azione propizia del gobbetto d’oro posto fra i ciondoli del suo orologio, è un superstizioso poco dissimile dal Beneventano del secolo XVII, che non esciva di casa alla notte per timore di veder passare le streghe recantisi allo storico noce, o dal prete rurale di Valle di Pompei, che nelle convulsioni di una povera isterica vede ancora oggi, dopo tanti progressi della scienza, l’effetto terrifico di una fattura. Fra le credenze e le paure di questi individui posti ad un grado così lontano di civiltà (Parigi non è forse il « cervello del mondo »?) lo studioso di fenomeni psichici e sociali scorge agevolmente il legame, anzi la più stretta af- [XIV] finità. L’emozione fondamentale ne è la medesima, cioè la paura davanti all’ignoto od all’insolito; ora, in questi fenomeni di psicologia popolare ciò che interessa è il lato affettivo, laddove l’idea che accompagna la emozione, diversificando a seconda dell’ambiente e della cultura individuale, diventa un puro accessorio.
Il libro del De Blasio rimette in luce un altro ben noto carattere delle superstizioni: il loro associarsi frequente alle aberrazioni e malattie mentali. Illustri alienisti (parlo dei veri cultori della Psichiatria, non dei molti dilettanti che infestano, ora, il nobile e difficile dominio di questa disciplina) hanno già trattato, possiamo anzi dire esaurito, l’argomento. Pure è utile ogni nuova ricerca sui rapporti fra demopsicologia e psicopatologia anche se compiuta su di un territorio ristretto su di una classe particolare della po- [XV] polazione. Il De Blasio arreca qui un ottimo contributo alla spiegazione delle credenze popolari e quindi anche dei miti, avanzata dalla scuola positiva o antropologica, in opposizione a quella che viene tuttora sostenuta dai seguaci del classicismo. Mi è sembrato gradito lo scorgere che le dottrine, al trionfo delle quali ho dedicata l’attività degli anni miei migliori, raccolgono nuove conferme da parte di giovani come lui valenti e studiosi.
Genova, I luglio 1899
Prof. Enrico Morselli
[XVII] Proemio
Sono molto lontani dal vero coloro i quali credono che la Stregoneria
fosse stata introdotta in queste nostre Province da’ Longobardi, che le
conquistarono e vi fondarono il Ducato di Benevento, che durò per più di tre
secoli, cioè dal 764 al 1077.
La Stregoneria, e con essa la Magia, gli Oracoli, gl’Incantesimi e i
Vaticini, che le fan da corona, possono dirsi altrettanto antichi quanto l’uomo
stesso, perciocché ne rimangono tali e tanti ricordi nelle più vetuste memorie
della nostra stirpe, che ci permettono di considerarli come un retaggio di
quelle antichissime popolazioni, che si potrebbero quasi dire preistoriche.
Buon numero di quelle credenze è oggi scomparso fra i popoli civili; ma
ne rimangono pur tuttavia alcune, le quali, se tenute come supersti- [XVIII] ziose e
vane dalla gente colta, non riscuotono meno onori e fede presso i volghi
ignoranti delle nostre popolazioni; e però non parmi inutile il ricordare
quanta efficacia quelle credenze avessero avuto nell’alta antichità, e quanta
nei secoli che da quella età si avvicinano man mano fino a noi.
E per dirne alcun che, per quanto riguarda i tempi più remoti,
ricorderò l’importanza che s’ebbero i Vati di Calcante[1],
Nerèo[2],
Cassandra[3],
che predissero la distruzione di Troja e la caduta del regno di Priamo;
ricorderò Tiresia, che, non mai creduto, vaticinava a Edippo il suo miserando
destino[4],
e il Titano Prometeo, [XIX] che, incatenato sulla vetta del Caucaso,
annunziava ad Io, convertita in vacca da Giove, il ritorno al suo primiero
stato ed il suo lieto avvenire[5];
ricorderò ancora le Sacerdotesse che presedevano ai santuari di Lesbo[6],
di Delfo[7],
di Dodona[8],
e vi profferivano oracoli venerati per tutta l’Ellade e fuori; la Sibilla
Cumana, dalla cui bocca raccoglieva Enea gli auguri che gli assegnavano il
possesso d’Italia[9], e per
ultimo ricorderò Carmenta, che presagiva, fin da’ suoi tempi, le glorie e la
grandezza di Roma[10].
Ma come a poco a poco scemava nelle moltitudini la fede ne’ Veggenti e
negli Oracoli, così cresceva invece e si assodava sempreppiù quella ne’ Maghi e
nelle Streghe, che con sortilegi, con incanti, con filtri compivano opere
nefande.
Innanzi a tutti si ricorda Medea, che con arti [XX] magiche
aiutò Giasone nella conquista del Vello d’Oro, e gli fu guida a ritornare in
Tracia col ricco bottino e con a lato l’amata donzella, che gli fu poi cagione
di dolori e di morte[11].
Calipso[12] e Circe[13],
famose nell’arte, fecero anch’esse sentire all’astuto Ulisse la possa dei loro
incantesimi, ritenendolo per più anni lontano dalla sua casta Penelope, e dalla
sua cara Itaca.
Sparsasi di poi quell’arte per la Grecia e per l’Italia, molti, e
singolarmente le donne, si diedero [XXI] a praticarla. Teocrito, nel suo idillio, L’incantatrice, ci parla di una di quelle maghe, che,
abbandonata dall’amante, tenta richiamarlo a sé con tutti gl’incanti di cui
essa dispone[14].
Così parimenti Orazio, che nelle sue Odi a Canidia ci fa palesi le arti
onde volevasi la Maga nei suoi sortilegi[15];
e Virgilio altresì, che ci descrisse gl’incantesimi del pastore Alfesi- [XXII] beo per
richiamar Dafni, l’infido, ai suoi primi amori[16].
E per vero, tanto salda presso gli antichi era la credenza nei Maghi e
nelle Streghe, che si credeva poter essi a lor talento trar giuù dal cielo la
Luna[17],
evocare i Mani[18], incantare
i serpenti, ed altrettali cose[19].
« Dopo queste prodezze, scrive il Leopardi, il coprire il cielo di nubi, il far muggire i tuoni senza consenso di
Giove, e biancheggiare la terra di neve nel cuor dell’estate, il destare i
morti, l’eccitare il mare a tempesta dovevano esser ed erano infatti un giuoco
per quei possenti incantatori[20]
».
Fra i tanti Maghi e Streghe in maggior conto erano tenuti quei di
Tessaglia, la rinomanza dei quali era giunta a tale, che alla stessa Magia si [XXIII] dava il
nome di Arte Tessalica, onde Orazio
ebbe a dire, per celia, ad un suo amico:
Quae saga, quis te solvere thessalis
Magus venenis, quis poterit Deus?[21]
E per dare maggior fondamento di vero a quella credenza si asseriva che, siccome la Tessaglia abbonda di veleni e di erbe delle quali si servono i Maghi, questi vi dovevano esser in gran numero, tra i quali contatasi quel famoso Erittonio del quale parla Lucano nel IV della sua Farsalia[22].
Riputazione non minore nelle arti magiche si ebbero anche i Marsi, i
quali scongiuravano ed ammansavano anch’essi i serpenti col canto, e le
velenose ferite risanavano con la virtù delle erbe di cui sono feraci i loro
monti; ed è ben noto come Virgilio descrivesse l’incantatrice e sovrumana possa
del fortissimo Umbrone. Le loro arti magiche si dicevano un dono della sorella
di Circe, Angizia, la quale, venuta dalla Colchide nei luoghi vicini al Fucino,
mostrò ed insegnò [XXIV] a quegli abitanti come si dovesse resistere
a’ morbi e domare i veleni[23],
e perciò i Marsi le rendevano un culto divino in un tempio circondato da una
selva sacra, della quale rimangono tuttora le memorie e il nome nell’odierno
villaggio di Luco[24].
Coloro poi che accreditarono sempreppiù in Roma le pratiche della Magia
furono gli Etruschi. Gli stessi deserti dell’Appennino, ov’erasi nascosto,
secondo la tradizione, l’Augure Arante proscritto dall’Etruria, fatta schiava e
spopolata, rimasero la sede di quei Maghi che il Senato chiamava poscia nella
Roma degli Imperatori, ogni qualvolta una cometa, un’ecclissi, una inondazione,
o la nascita di un vitello con otto piedi destavano lo sgomento nella
popolazione.
[XXV]
Questi stessi deserti dell’Appennino, nel
secolo XIV, nascondevano ancora il temuto Negromante.
Che ne’ monti di Luni, dove ronca
Lo Carrarese di sotto alberga,
Ebbe tra bianchi marmi la spelonca
Per sua dimora, onde a guardar le stelle
E ‘l mar non gli era la veduta tronca[25].
Altra ancor più strana leggenda che riscuoteva altresì, molta fede
presso gli antichi era quella, che i Maghi potessero cangiare gli uomini in
lupi, come Circe aveva mutato in porci i compagni di Ulisse. È Virgilio che ce
lo dice nella VIII delle sue Egloghe, nella quale fa raccontare da Alfesibe la
potenza fascinatrice del potentissimo Mago Meride.
Has herbas, atque haec Ponto mihi lecta venena
Ipse dedit Moeris; nascuntur plurima Ponto.
His ego saepe lupum fieri, et se condere silvis
Moerin, saepe animas imis excire sepulcris,
Aque satas alio vidi traducere messes[26].
[XXVI]
Uno dei racconti classici intorno al
trasformarsi degli uomini in lupo lo troviamo in Petronio, il quale, parlando
della trasmutazione di un versipellis,
dice che, essendo stato ferito un lupo, l’uomo che era nascosto sotto quelle
spoglie, ritornato nel suo primo stato, presentava la stessa ferita che gli era
stata inferta sotto la forma di lupo[27].
A’ tempi di S. Agostino (354-430) vi erano Maghi, i quali persuadevano
i gonzi che con certe erbe potevano trasformarli in lupi, e quindi ritornarli a
lor grado nella pristina loro condizione[28].
[XXVI]
Cotesta fiaba è una di quelle che abbiano
avuto, in antico tempo, maggior credito presso gli Slavi, la quale da’ Neuri, di cui parla Erodono nel VI delle sue
storie, che si cangiavano in ogni anno in lupi, si è protratta fino a’
Livoniani odierni, i quali credono, che i loro maghi s’immergano, in ciascun
anno in un fiume per essere trasformati in lupi, e quindi per dodici giorni
vivere sotto quelle spoglie[29].
La superstizione slava, sviluppando ancor più l’idea, aggiunge che i lupo, che
sogliono talvolta, nell’inverno, addentare gli uomini, altro non sieno che Wilkolak,
o uomini stregati sotto l’aspetto di lupi[30].
La credenza medesima perdura tuttora presso le rozze popolazioni della
Germania, dove non bisogna mai pronunziare, nel mese di dicembre, il nome di
lupo, perché si potrebbe esserne divorati[31];
perdura anche in Iscozia, dove, non essendovi lupi, vi si sostituiscono altri
animali; e fra le bizzarre leggende di quel paese, si racconta che a Thurso
taluni maghi avevano, sotto forma di gatti, tormentato per tanto tempo un
brav’uomo, [XXVIII] il quale, stanco finalmente di tante importunità, una notte li mise in
fuga, tagliando financo ad uno di essi, il più pigro, una gamba; ma quale non
fu la sua sorpresa quando s’avvide che quella gamba era una gamba di donna, e
l’indomani scoprì che la vecchia strega, sua albergatrice, aveva una gamba di
meno![32]
Altra leggenda non meno fantastica, la quale ebbe in antico, e più
ancora ne’ tempi di mezzo, gran favore presso le moltitudini, era quella della
esistenza di esseri soprannaturali, sollazzevoli, gioviali, bizzarri, che si
chiamavano Trolli, Folletti,
Farfarelli, i quali vagavano nell’aria e
penetravano a lor piacere, di notte, nelle case, destandovi spavento e
facendovi gran chiasso, ora con bussi e picchi, ora mettendo tutto a soqquadro.
Erano maghi ed incantatori per eccellenza. Sapevano trasformarsi in varie
fogge; avevano in custodia i tesori nascosti, e li rivelavano a chi avesse
saputo meritarli[33].
[XXIX]
Di queste favole, che anche presso di
noi, ebbero molto credito, rimane ancora qualche fievole memoria in alcuni
luoghi dove le madri sogliono talvolta invocare i Folletti e i Farfarelli per
ispauracchio dei loro indocili figliuoli[34].
A tali esseri strani e curiosi erano associate anch’esse le Fate, che, ora in forma di vaghe donzelle, ora di
vecchie laide e schifose, s’ebbero una larga parte nelle credenze popolari
dell’antichità e del medio-evo. Prosatori e poeti non isdegnarono raccontarne
le gesta, ed Alcina, Melissa, Narcisa, Gabrina sono rimaste celebri ne’ canti
dell’Ariosto, come la memoria di Armida vive e vivrà ne’ canti della
Gerusalemme del Tasso.
Il loro credito è stato sì potente, che neppur oggi ne è scomparsa la
memoria, ed anche al presente esse formano un tal quale ambiente nel quale sono
educati i nostri bambini. In ta- [XXX] lune contrade delle Francia si crede anche
oggidì che elle si radunino a conciliabolo di tanto in tanto presso i Dolmen ed
altri monumenti megalitici, che dalle stesse Fate prendono il nome loro, come
la Laza de la Fada, in Provenza, la Tioula
de las Fadas, presso Saint Flour, in
Alvernia, le Milloraines (giovanette)
presso Langon, e via dicendo. Un Dolmen
nella foresta di Paintpoints, in Brettagna, è conosciuto sotto il nome di Tomba
di Merlino, perocché vuolsi che sotto quel Dolmen giaccia sepolto l’incantatore Merlino, che, fatto prigioniero d’amore
dalla bella Viviana, vive ora congiunto con l’amata donna sotto le pietre del
verde poggio di Broceliante[35]
Di altre creazioni più gioconde si abbelliva ancora il mondo ideale de’
popoli del settentrione, e furono le Niscie, le Ondine, le Iude, che, a
somiglianza delle Naiadi, delle Driadi ed Amadriadi delle mitologie greca e
romana, erano custodi delle sorgenti ed abitatrici delle foreste e delle rive
dei fiumi. Erano fanciulle vaghissime, dai capelli d’oro, dall’aspetto
incantevole, dall’accento melodioso, dallo sguardo affascinan- [XXXI] te, le
quali avevano la virtù di trasformarsi in mille guise, sempre avvenenti, sempre
seduttrici. Gli uomini, affascinati da’ loro sguardi, si annegavano e davano
così la loro anima in balia dello spirito maligno.
Benché di talune delle suaccennate credenze rimanga tuttora presso il
popolo qualche lieve ricordanza, quasi come avanzo di un mondo che fu, il loro
credito peraltro va dileguandosi di giorno in giorno, e il loro completo
tramonto non pare molto lontano.
Non così per i maghi e per le streghe, che suscitano tuttora presso di
noi, come ne’ secoli decorsi, ed ora con invocazioni, ora con incanti, ora con
oroscopi, ora con arcane parole s’impongono alle menti del credulo volgo con
formule misteriose e vivono lietamente alle spalle dei poveri gonzi.
Napoli 15 luglio 1899
Prof. G. Nicolucci
[1] …Era Calcante
De’ veggenti il più saggio, a cui le cose
Eran conte che fur, sono e saranno,
Omero - Iliad. 1 v. 92-93 trad. Monti.
Conoscitore dei tre tempi (passato presente e futuro), al pari del Calcante Greco, era l’aryo vate Narada, il quale interrogato da Valsici, se fra gli uomini alcun ve ne fosse che potesse agguagliarsi ad un Dio, rispose esser quello Rama dotato di tutte le virtù che possono avvicinare l’uomo ad un essere Divino.
Ramayana, Lib. 1. cap. 1. Trad. Gorresio.
[2] Su vaticinio di Nereo della rovina di Troja vedi Orazio - Ode 8 Lib. 1.
[3] Tunc etiam fatis aperti Cassandra futuris
Ora, Dei jussu, non unquam credita Teucris.
Virgilio - Eneide II, v. 246-47.
[4] Sofocle, nell’Edipo Re.
[5] Eschilo - Prometeo incatenato.
[6] A Lesbo era la testa di Orfeo che parlava e dava responsi a guisa di Oracolo.
[7] A Delfo, la Pitia (sacerdotessa), seduta sopra un tripode d’oro, e nascosta dietro una cortina, rendeva gli oracoli in nome di Apollo.
[8] A Dodona, in Epiro, sorgeva l’oracolo di Giove dove le sacerdotesse che vi presedevano traevano gli augurii dal modo come rumoreggiava la quercia sacra a quel Nume.
[9] Virgilio - Eneide VI. 10-52.
[10] Idem VIII 335 e s.
[11] Così bellamente Pindaro (Pitia, Od. IV, tad. Pagnini):
Arde l’alta donzella, e alfin rivela
L’arti paterne al garzoncel diletto,
E unguento gli offre a non sentir le pene,
E promessa n’ottien di dolce imene.
[12] … Ulisse: il ritenea
Nel cavo sen di solitarie grotte
La bella venerabile Calipso,
Che unirsi a lui di maritali nodi
Bramava pur, Ninfa quantunque e Diva.
Odissea, trad. Pindemonte lib. 1 v. 21-25.
[13] Circe, accolti fraudolentemente nella sua isola
Enea ed i compagni di Ulisse, con bevande esiziali,
convertilli tutti in sozzi animali,
… che avean di porco testa,
Corpo, setole, voce, ma lo spirto
Serbavan dentro, qual dapprima, intègro.
Odissea, X 241-42.
E Virgilio
(Egl. VIII v. 70)
Carminibus
Circe socios mutavit Ulyssei.
[14] Testili, dove son gli allori e i filtri?
Fascia quel vaso con purpurea lana
Di pecorella, onde colui, che tanto
M’è crudo, astringa con incanti
…………………………….
… a me quel tristo
Non vien, né sa, se noi siam vive o spente.
Certo l’Amore instabile, e Ciprigna
L’han volto in altra parte. Andrò a trovarlo
Doman di Timagete alla palestra,
E a rinfacciargli il torto. Or con incanti
L’assalirò. Tu, Luna, alto risplendi,
Ond’io pian pian teco favelli, o Dea,
E con Ecate inferma, ond’hanno orrore
I cagnoletti allor, che per le tombe
Va degli estinti, e il sangue atro calpesta,
Salve, Ecate tremenda, e al fianco stammi
Fino all’estremo, e fa che i miei veleni
A que’ non cedan di Medea, o di Circe,
Né a quelli della bionda Perimeda.
[15] Orazio, Epod. V Ode VIII e XII.
[16] Bucolica, Egloga VII.
[17] Carmina vel coelo possunt deducere Lunam.
Virgilio, La Bucolica, Egloga, VIII v. 69.
[18] Così Medea in Ovidio.
… Iubeoque tremescere montes,
Et mugire solum, manesque exire
sepulchris;
Te quoque, Luna, traho.
[19] Sopra gli errori popolari degli antichi - Della Magia p. 39 - Ediz. Viani.
[20]
Species Magiæ, scriveva lo stesso Plinio, purea sunt. Nacque et ex aqua, et ex sphaeris, et aere, et stellis, et lucernis, ac
pelvibus, securibusque, et multis aliis modis divina promittit, Hist. nat. Lib. XXX cap. 5.
[21] Odi, lib. 1 ode 17.
[22]
Virgilio, Eneide libro VII 752-65.
Così poi scrive lo Scoliaste di
Prudenzio (contra Symmachum, lib. II): Thessalia abundans est venenis et
herbis quibus magicam faciunt Magici et incantatore, e quibus Erichto fuit.
[23] … Marsica pubes
Et bellare manu, et chelydris cantare
soporem,
Vipereumque herbis hebetare et carmine
dentem.
Silio Italico, Punica VIII 455-7.
[24] Oggi non è più Angizia che riscuote nella Marsica le adorazioni del volgo, ma un S. Domenico Abbate, in Cuculo (paesello della Marsica stessa), si è sostituito alla sorella di Circe, onde a Cuculo traggono da ogni parte i devoti per liberarsi dei veleni dei serpenti, e da quello inoculato da cani, od altri animali attaccati da idrofobia. Ivi si crede che i serpenti non abbiano veleno, e i ciurmadori di quel paese li carezzano con voluttuosa compiacenza.
[25] Dante, Inferno - Canto XX 47-52.
[26] Forse l’aver mostrato Virgilio in quest’Egloga quanto egli fosse stato addentro nella conoscenza dell’arte degli incantesimi ha potuto dare origine alla leggenda, che egli fosse stato un mago per bene, e questo concetto, fatto pieno ed intero, divenne ovvio in tutti i paesi latini, né v’era scrittore di qualsivoglia ordine che non ne sapesse. Il mezzodì d’Italia ne era più di ogni altro ripieno, ed oggi scrive il Comparetti (Virgilio nel Medio Evo, 1896 v. 2, p. 181), è bello a vedere conservarsi tuttora vivente nell’estremo lembo della Penisola, dopo parecchi secoli, la ricordanza di quelle « arti di Virgilio » nel seguente ben più fino, sincero e grazioso canto d’amore udito sulla bocca di una contadina in un piccol villaggio presso Lecce, a non molta distanza da Brindisi, ove il poeta morì.
Diu! Ci tanissi (= avessi) l’arte da Vargillu!
‘Nanti le porte to’ ‘nducia (= condurrei) lu mare,
Ca da li pisci me facia pupillu (= piccolo e grazioso pesciolino)
‘Mmienzu le riti to’ enìa (= verrei) ‘ncappare:
Ca di l’acelli me facia cardillu.
‘Mmienzu lu piettu to’ lu nitu a fare;
E suttu l’ombra de li to’ capilli
Enìa de Menzugiurnu a rrepusare
[27] Satyricon LXII.
[28] De Civitate Dei XVIII.
[29] Desent, Norse
Tales. Introd. P. CXIX.
[30] Hanusch, Slaw
Mythologie, p. 286-320.
[31] Grimm, Deutsche
Mythologie, p. 1047.
[32]
M. Taylor - La civilizzazione primitiva.
[33] Grazioso è questo brano del Satyricon di Petronio (Cap. XI), nel quale si fa menzione di un Folletto cui era stato rubato il cappello da un tale, che con esso s’impadronì d’un tesoro. « Vedi (così uno de’ commensali di Trimalcione ad un altro invitato che eragli vicino), vedi colui che se ne sta all’ultimo luogo? Adesso ei possiede i suoi ottocento talenti; pur vien dal nulla; poc’anzi usava portar legna sulle sue spalle. Ma dicono, come ho udito (che io no’l so) che egli abbia rubato il cappello ad un Folletto, e che trovò un tesoro ».
[34] Era così diffusa presso i popoli settentrionali la credenza in questi esseri misteriosi, che intorno ad essi si aggira una buona parte de’ vecchi canti magici della Scandinavia - L Piveau, Vieux chants populaires scandinaves - Paris, 1898.
[35] Du Cleziou - La creazione dell’uomo e i primi tempi dell’umanità trad. ital. Milano, 1887, p. 438.